Alla periferia della città, tra le estreme costruzioni e la ferrovia, si stende una striscia di terra incolta, di proprietà del demanio, che dovrebbe soddisfare eventuali necessità della strada ferrata.
I bambini di quella zona della città hanno trasformato quello spazio in tutto ciò che suggeriva loro la fantasia. E' diventato campo di calcio, terreno di caccia alle lucertole, boscaglia di canne impenetrabili, pista per bici da cross, foresta equatoriale infestata dai pirati e chissà quante altre cose che l'antico bambino che è in me non riesce più ad immaginare.
Sul viottolo in terra, battuta dalle ruote delle biciclette e dalla corsa di tante scarpette che gira intorno e dentro al "prato" cresce un albero. Non è il solo albero che vive nel prato ma, il fatto che cresca in quel tratto del viottolo che passa accanto alle case, abbastanza vicino da sentire i richiami delle mamme ed abbastanza lontano da potersi sentire impavidi esploratori lo ha reso diverso.
I bambini lo chiamano il Grande Albero.
A vederlo non sembra poi così grande, anzi è un po' piccolino e per uno come me che riconosce a malapena un pino da un abete è di razza totalmente ignota, però è senz'altro un albero.
Ha una bella corteccia ricoperta verso nord da un leggero strato di muschio verde ed un tronco che, già da terra, si dirama in due e poi a pochi centimetri di altezza si dirama ancora e poi ancora, in tanti rami e rametti, come un arbusto mediterraneo, ma ogni ramo ha una sezione sufficiente a reggere il peso di un bambino.
Gli altri alberi che crescono nei paraggi sono alberi veri, con tronchi che si innalzano per diversi metri o sono arbusti con rami e tronchi troppo sottili per giocarci. Sul Grande Albero, invece, ci si può salire, giocare tra i suoi rami, sentirne da vicino l'odore nei rami più alti, bivaccare ai suoi piedi, tutto come su un vero albero di quelli grandi.
Sergianni che, pur avendo tratti del viso delicatissimi, ha da sempre dimostrato di essere imparentato con le scimmie, ha evoluito molte volte tra i suoi rami, dimostrando agli altri, troppo pesanti per imitarlo, la sua bravura e una volta che ha voluto strafare, per i bei occhi di una bambina, tra un passaggio e l'altro ha mancato la presa ed è caduto al suolo proprio sopra un sasso.
Gli effetti di quella caduta sono ancora ben documentati nelle diapositive che raccontano le nostre vacanze al mare 198...e di un bambino con il braccio ingessato.
Avete notato che i quartieri delle città rispecchiano la gente che ci abita e che ci sono quartieri nuovi e vecchi abitati da giovani o da anziani e che un quartiere vecchio è stato giovane una volta e uno giovane diventerà vecchio?
Nel nostro giovane quartiere sono nati tanti bambini tra i dieci e i quindici anni fa e qualcuno nasce ancora. I bambini di una volta ora sono giovanetti e non vanno più a giocare ai piedi del Grande Albero ma, i più piccoli sentono ancora la sua magia, la sua unicità e ogni tanto, passando di là, se ne trova qualcuno abbracciato ai suoi rami, a qualche metro dal suolo, con gli occhi brillanti di eccitazione e le guance rosse.
Quando venimmo ad abitare in questo quartiere eravamo molto giovani ed appena sposati. Avevamo deciso di non avere bambini, almeno per i primi anni di matrimonio e di goderci la libertà dai nostri genitori appena conquistata.
La casa era quasi vuota di mobili, quasi vergine, come noi del resto.
Tutte le coppie che ci abitavano intorno avevano dei cuccioli di uomo che strillavano e mangiavano e facevano i sorrisini e tutto questo cominciò a far un certo effetto su di Lei, tanto che decidemmo di prendere anche noi un cucciolo per riempire la casa e attenuare il bisogno di maternità che montava sempre più nella mia dolce compagna.
Un cucciolo di gatto.
Perché proprio di gatto?
Perché qualche anno prima era vissuta insieme a noi, nella casa di mio suocero, una cagnetta ed avevamo toccato con mano i bisogni di un animale di grossa taglia ed estremamente sociale come il cane.
Meglio un gatto: più piccolo, se ne frega di comunicare, sa stare solo ed una casa è un territorio sufficientemente grande.
Un giorno di gennaio ne scegliemmo uno in mezzo ad una cucciolata di cinque.
Il più vivace, il più bello, il più vitale, il.... più e lo portammo a casa.
Era un batuffolo morbido e pungente con occhi azzurri, dolci e spiritati e la coda e le zampette ed il muso neri. Un Siamese. Cominciò subito ad appropriarsi di tutto ciò che c'era in casa, distruggendo quello che non gli piaceva e giocando con ciò che aveva la sua approvazione fino a distruggerlo.
Tende, poltrone, porte, lenzuoli, camice, cappotti. Ho ancora una diapositiva che lo coglie dentro un vaso di cristallo a giocare con i fantasmi poco prima della distruzione del vaso.
In mezzo a tutto quel pelo e quelle unghie non si trovava quello che un maschio avrebbe dovuto avere. Alla fine ci arrendemmo all'evidenza: era una femmina.
Cademmo nello sconforto per qualche secondo poi trovammo mille argomenti a favore delle gatte e cercammo subito un nuovo nome adatto alla sua femminilità.
A dire il vero non ricordo che nome gli avevamo dato quando pensavamo fosse maschio, ma la sua parentesi mascolina è stata così breve da non meritare i ricordi del mondo.
A quel tempo mi interessavo alla storia della religioni e volevo darle il nome di "Grande Madre" come Ishtar, dea mesopotamica, ma alla mia Lei non piacque, optammo allora per il nome dell'ultima "Grande Madre" dell'umanità, Maria, anagrammandolo un po', per il dovuto rispetto, e sostituendo la "I" con una "Y" per un tocco di esotismo: MAYRA.
Inizialmente questo nome stava un po' largo a quel batuffolo scatenato che si svegliava al tramonto, combatteva i fantasmi fino a notte e poi si intrufolava sotto le lenzuola fino a raggiungere l'incavo della mia ascella dove si accoccolava fino all'alba esternando la sua soddisfazione con un "GRON GRON" forte ed interminabile.
L'estate di quell'anno Lei rimase incinta e da quel momento la sua attenzione fu tutta presa dalla creatura che gli cresceva dentro, come solo una madre comprende: Io, da quasi padre, continuavo, intanto a godermi Mayra.
Quando Sergianni nacque, Mayra era già una gatta adulta e bellissima e mai nome di gatta fu più adeguato. Accanto alla culla, nella sua immobilità presente, era una dea egizia che vegliava il sonno del giovane uomo. La sua prima, precoce, esperienza sessuale la visse con il padre e da quella unione nacquero quattro bellissimi cuccioli.
A volte, ridendo, la chiamavo "gatta incestuosa" e lei mi guardava con occhi lontani: i Faraoni, figli del sole, non sposavano le sorelle?
In seguito, si innamorò di un gattone nero, padre, nonno o avo di tutti i gatti del quartiere e quando scappava di casa, obbedendo al richiamo della natura, tornava sempre piena di cuccioli dai colori più strani almeno uno dei quali era però nero, come il padre.
Con lui ha vissuto le fughe più emozionanti, come quei tre giorni sotto la pioggia, scaldata dal fuoco della passione e asciugata dai potenti getti di aria calda al suo ritorno a casa, piena di cuccioli come di solito.
Con quel gattone ne fece tante, poi lui scomparve, nascosto dal tempo. Quando il richiamo della natura fece di nuovo sentire la sua voce potente Mayra uscì a cercarlo. Trovò tanti gatti, ma li tenne a bada tutti e tornò a casa sconsolata e con la voglia.
Quando mai si era vista una gatta monogama?
La natura tornò a chiamarla e lei uscì a cercare il suo maschio, quando tornò a casa era tranquilla e tra i suoi cuccioli ce n'era uno nero.
Sergianni ha ora quasi dodici anni e Mayra ne avrebbe avuti quasi tredici se qualche mese fa le ruote del tempo non avessero annunciato, con l'affievolirsi del loro scampanellio, il complemento del suo karma.
La sentivo respirare, accanto a me, la notte, con un respiro che migliaia di notti mi avevano insegnato a riconoscere e che ora sentivo estraneo.
La consapevolezza cresceva e la ricacciavo in fondo fino a farla affiorare mascherata di cinismo.
Mayra sta morendo.
E' vecchia.
Ha avuto 56 cuccioli.
Ha vissuto la sua vita da gatta.
Con le stesse parole lo dissi a Loro.
Nessuno riuscì ad accettare l'idea. Tonia la portò subito dal veterinario e tornò con occhi gonfi di pianto, piena di rancore verso il medico che aveva confermato brutalmente quello che tutti noi sapevamo.
Mayra uscì dalla cesta ed andò ad accucciarsi ai piedi del letto, lontano da noi, lontano da me.
Non venne più ad accoccolarsi nell'incavo della mia ascella.
Stava lì sola, a respirare sempre peggio, senza voglia di cibo e di carezze.
Aspettava.
Dopo otto infiniti giorni era ancora lì, quasi irriconoscibile.
Mille volte avevo rifiutato la morale cristiana della vita a tutti i costi, anche a costo del dolore, ora era venuto il momento di operare quel rifiuto, non su di me, come lo avevo sempre pensato, ma su qualcuno che non poteva accettare o rifiutare e questo rendeva tutto più difficile.
Oscillavo tra il desiderio di chiudere occhi e orecchie e lasciar fare alla natura, sperando che tutto avvenisse in mia assenza e la certezza che tutto sarebbe invece accaduto di notte e che sarebbe durato troppo a lungo per poterlo sopportare.
Parlai a Tonia della cuspide sulla quale ci trovavamo, ma lei piangendo, rifiutò di scegliere un lato.
Toccava a me decidere e scelsi l'amore.
Parlai con la farmacista dagli occhi sporgenti che sapevo sensibile alle piccole creature e le chiesi del valium. Lei mi indirizzò ad un medico di sua fiducia perché "quell'altro è un cane" disse.
La faccia vedere al dr. H, se anche lui conferma le darò il valium.
E così, io, Tonia e Mayra dentro la cesta con la sua copertina, facemmo la fila da dr. H.
Quando volle il cielo entrammo nello studio, estrassi Mayra dalla cesta e la poggia sul freddo tavolo di acciaio. Oh poverina - disse il dr. H - mentre la visitava.
Il mio cuore si gonfiò e le lacrime sgorgarono dagli occhi di Tonia. Spiegai al dottore le mie intenzioni con voce malferma, lui sconsigliò il valium. Mi dica Lei cosa, allora - dissi .
Ci propose una endovena.
Come si fa un'endovena ad un gatto?
La faccio io dopo un sedativo - disse.
Intanto Mayra si era rifugiata sulle mie braccia.
Avrei voluto che si addormentasse per sempre e sul suo letto a casa e non su quel tavolo freddo in mezzo agli estranei, ma come si fa una endovena ad una gatta?
Ci cercammo con gli occhi io e Tonia e nei suoi lessi smarrimento e dolore.
Guardai il dottore ed accennai di si.
Lui praticò una iniezione sulla coscia di Mayra che non si accorse di nulla e continuava a starmi in braccio.
La accarezzai fino a quando il sedativo non cominciò a far sentire i suoi effetti, poi con gli occhi appannati dal sonno la poggiai sul tavolo. Lei si stese come per dormire. Hani praticò l'endovena e dopo pochi secondi il cuore si fermò.
Vivevo uno strano stato selettivo, c'era solo Mayra, le spalle del dottore, le sue mani e quel zampillo di pipì giallo, subito assorbita da un panno, quando Mayra se ne andò.
La avvolsi nella sua copertina di lana chiara fatta all'uncinetto e la posi nella cesta. Uscimmo e piansi, ma non so più piangere. Le lacrime scorrevano senza riuscire a sciogliere quei grumi in gola come succedeva quando ero bambino.
Giunti a casa lasciammo la cesta sui sedili posteriori della macchina, Sergianni ci guardò e capì. Prendemmo la pala snodabile, che si ricorda di tanti campeggi ed uscimmo a seppellire Mayra nel prato.
Tutti sapevano dove e non c'era bisogno di parole.
Ci incamminammo sul viottolo che costeggia le case, era notte fonda, la luna era alta ed il prato era chiaro. Tonia, quasi tra se, disse, andiamo al Grande Albero.
Accennai di sì e continuammo.
Di notte sembrava più piccolo del solito il Grande Albero.
Cominciammo a scavare il terreno duro ad un paio di metri dal tronco, verso ovest, dove il sole va a dormire. La fatica sciolse il nodo che le lacrime non erano riuscite a sciogliere.
Dopo un po' per confermare la magia del luogo, dissi: qui il terreno è troppo duro, andiamo da qualche altra parte. Mi guardarono con gli occhi increduli e mi incamminai, allontanandomi. Mi seguirono, protestando entrambi. Tornammo indietro e lentamente completammo la buca.
Presi Mayra, avvolta nella sua coperta e la adagiai sul fondo, acciambellata, come si acciambellano i gatti nel sonno. Versai una manciata di terra e dissi ad alta voce: Ciao Mayra.
Sergianni voltò le spalle e Tonia pianse.
Tornammo a casa in silenzio.
Il Grande Albero, forse ignaro della sua magia, rimase a vegliare il lungo sonno di Mayra.
Nascere è uscire,
morire è rientrare
Tredici sono le cause della vita
Tredici le cause della morte.
Lao Tze